LUDICO E PREVENZIONE: UN COMUNE SIGNIFICATIVO DESTINO?

Premettiamo che adoperiamo il termine ludico per indicare il gioco libero senza regole, nella sua accezione più ampia e per distinguerlo dai giochi strutturati e finalizzati al conseguimento di un risultato (vincita su di un avversario o vincita di denaro od altro).
Facciamo qui riferimento al termine prevenzione intendendolo coincidente con quello che l'igiene mentale definisce prevenzione primaria (armoniche condizioni accretive).
Se facciamo mente locale sulle potenzialità preventive primarie del ludico e sull'effettiva scarsa considerazione riservata ad esso e alla prevenzione primaria, viene da pensare che il comune atteggiamento di fondo per cui si finisce per non dare la dovuta importanza al gioco ed alla prevenzione, non sia del tutto casuale.
Se, ancora, si pensa che il ludico coincide con un'altra componente emarginata dalla nostra tradizione, vale a dire il piacere, riconosciuto sul piano scientifico alla base della nostra salute (nota è, infatti, l'importanza dei co-siddetti ormoni del piacere e della salute: le endorfine), ci si domanda cui prodest il nostro star male.
La prevenzione ed il gioco sono tutt'altro che ignorati sul piano speculativo dottrinale: essi sono oggetto di eru-dite dissertazioni e fanno titolo anche di convegni nazionali ed internazionali. Purtroppo però buona parte delle risorse umane e finanziarie viene investita sugli effetti problematici conseguenti alla mancanza del gioco e della prevenzione, lasciando pressocché scoperta, sul piano degli in-vestimenti, l'area psicopedagogica, vale a dire quella della prevenzione primaria.
Se coincidenze come quelle appena menzionate risultano costituire delle costanti, non si può fare a meno di ricercare una loro eventuale significatività (o significanza?)
Sorge il dubbio, anzitutto, se a spiegare questa supposta coincidenza tra carenze ludiche, mancata prevenzione e il conseguente massiccio investimento delle risorse sugli effetti derivanti, basti la pressante drammaticità con la quale, oggi, tanti problemi ci si presentano oppure se non possano giocare un ruolo anche fattori culturali e/o istanze irrazionali.
Dubbio-sospetto rafforzato dalla constatazione che il nostro assetto socio-istituzionale sempre più si mostra sostenuto, anzi alimentato dalla miriade di problemi confluenti dai singoli individui al mare magnum del sociale e che da qui, a loro volta, ricadono su ciascuno di noi.
Se questa impressione-constatazione ha qualche fondamento, ne consegue che il nostro tanto deprecato sistema si esaurirebbe, come per inedia, da atrofia ex non usu, nel senso che se venisse meno il rifornimento di problemi, verrebbe a mancare pure la ragion d'essere di molte possibilità di lavoro, il pabulum su cui vive buona parte dei preposti alle diverse istituzioni, dei suoi dipendenti-operatori, in genere.
In altri termini, uno spazio maggiore alla prevenzione supporrebbe un eventuale collasso del millennario sistema che tante volte si è creduto di abbattere con rivoluzioni cruente e dalle quali, invece, esso ha tratto poderose spinte per irrobustirsi.
Nell'ambito della psicologia dell'età evolutiva, peraltro, è più o meno tacitamente acquisito il principio, che sia meglio avere una madre cattiva che non averne alcuna.
Un convincimento-principio del genere, probabilmente, è radicato anche nel profondo della nostra psiche...come un archetipo, ragion per cui, nel corso dei secoli, abbiamo sviluppato una serie di difese-resistenze nei confronti di tutto ciò che potrebbe indebolire l'assetto-mamma-sistema, grazie alle cui risorse ciascuno di noi ha concrete possibilità di sopravvivenza.
Una comprova che si tratti di questo tipo di strategie potrebbe essere il fatto che l'assetto mercantile-istituzionale vive, in buona parte, sulla menomazione dei nostri poteri di adattamento naturali, avvenuta di pari passo con la cosiddetta civilizzazione, vale a dire con lo sviluppo tecnologico: impensabile un'esistenza priva dei suoi stessi artefatti industriali.
Il nostro sistema, quindi, trarrebbe linfa vitale, prevalentemente, dalla menomazione dei nostri poteri di adattamento di ordine biologico e, in genere, dai vari bisogni indotti che comportano la rinuncia al valore dell'essere, privilegiando il valore dell'avere.
Tale rinuncia, peraltro automatica e quasi sempre inconsapevole, sottende il processo di progressiva alienazione che tende a sfociare in una serie di problemi psico-emotivi, psicosomatici e relazionali.
La linea strategica perversa, sinora ipotizzata, si perfeziona, infine, con la messa fuori gioco di uno dei più preziosi strumenti pedagogici, vale a dire il gioco.
Indubbio il valore del ludico quale indispensabile fattore di crescita bio-psico-sociale.

Possiamo, ancora, avere un'idea più precisa sulla posizione logistica in cui si trova il ludico nel nostro assetto passando in rassegna il modo in cui viene considerato, utilizzato o gestito da alcune nostre agenzie e istituzioni di primaria importanza.

Al riguardo, rileviamo, anzitutto, che, in genere, il gioco viene ritenuto come un qualcosa che è del bambino, quindi poco serio, quasi un male necessario ma, per fortuna, passeggero.

Il ludico e la famiglia

Nel processo maturativo e accrescitivo il gioco riveste quasi la stessa importanza di una "madre sufficientemente buona" (Winnicott) nella primissima infanzia, fase in cui il gioco ancora rudimentale del bambino abbisogna di uno spazio transazionale tra il proprio mondo soggettivo e l'altro da sè.
E' in questo spazio che nascono le premesse della futura creatività. Successivamente è l'incontro tra due spazi transizionali, quello del bambino e quello della madre e in futuro quello degli altri, che garantirà la possibilità di esperire simpatia, empatia e rapporti interpersonali autentici.
Qualora la madre non sia in grado di accogliere dentro di sè il bisogno ludico del figlio, perchè priva di tale dinamica, non potrà che limitarsi ad attendere alle sole esigenze del dovere, deprivandolo delle potenzialità in fieri.
Il gioco da possibilità è divenuto perversa tautologia del dovere, trasmettendo la cultura dell'avere anzichè dell'essere.
Nel prendere im esame questo aspetto, osserviamo che, anche in seno alla famiglia, l'atteggiamento predominante sia in buona parte speculare di quello vigente all'interno del gruppo di appartenza.
La funzione più utile ad esso riconosciuta coincide con le possibilità di scarica delle energie esuberanti proprie dell'età. Pertanto, solitamente, al bambino vengono concessi, tanto più quanto più è piccolo, momenti e spazi di gioco, al fine di averlo, poi, più duttile e docile alle esigenze adulte.
Tali spazi e momenti tendono sempre più a colorarsi di elementi comuni alla logica dominante nel sociale.
Pertanto, il gioco diviene giocattolo.
Il giocattolo surroga il rapporto.
Il rapporto si sclerotizza in bisogni indotti.
Ma molto più si è perduto del ludico: la possibilità di recuperare quel senso smarrito o frainteso per l'adulto, la possibilità di scoprirlo e di condividerlo per il bambino.
Inevitabilmente, il tutto si contamina, poi, dell'utilitaristico gioco del mondo dei grandi: i giocattoli stanno per quello che costano e bambini già deprivati diventano ora anche diversi (status sociale).
Gli adulti, deprivati del senso del ludico, non sono in grado di utilizzare, a beneficio del bambino, questo prezioso veicolo della comunicazione emotivo-affettiva e, in breve, di buona parte delle funzioni psico-pedagico-accretive, senza guastarne, se non definitivamente minarne, la natura, vale a dire la congenialità.

Il ludico e il mondo della scuola

Se all'agenzia famiglia viene demandato il compito di fungere da prima cinghia di trasmissione di viziati messagi culturali e, in un certo senso, essa subisce questa delega, l'agenzia scuola prosegue su questa via di denaturazione, affiancandosi o subentrando, in modo più attivo, all'agenzia primaria.
In proposito si rileva come i familiari, spesso, preparino il terreno, nel senso che inducono nel bambino vissuti di seriosità, nei confronti della scuola: l'inizio della frequenza della scuola dell'obbligo, infatti, viene visto ancora da molti futuri allievi come la fine di un'età di spensieratezza, a responsabilità limitata e, peraltro, di illimitata disponibilità di tempo per giocare e, invece, l'inizio di sacrifici, di compiti noiosi, in vista di vantaggi aleatori e molto lontani nel tempo.
La scuola tradizionale, decisamente, ha da tempo scisso il giocoso dal serio, i compiti scolastici dalle attività di gioco che vengono relegate ad un intervallo di ricreazione, mentre ha rinunciato alle essenziali funzioni del ludico supponendo erroneamente di favorire l'apprendimento.
Se, come sostenuto in precedenti lavori, il gioco è veicolo congeniale al cucciolo d'uomo, onde amalgamare il fare al piacere di fare, il vivere al piacere di vivere e lo stare insieme al piacere di stare insieme, ne consegue che gravi carenze ludiche compromettono alla base, oltre che la salute sul piano biologico (e già non sarebbe poco), anche la capacità e la voglia di lavorare, la salute psicoemo-tiva e i rapporti interpersonali dai quali dipende gran parte del nostro star bene (la vita del desiderio ecc.).

Ugualmente sconcertante si rivela la mistificazione che il gioco interpreta all'interno dell'interazione tra coetanei.
Lì dove sembrerebbe essere l'ultima spiaggia del ludico, ritroviamo nuovamente le denaturazioni precedentemente percepite nei contesti già analizzati.
Il ragazzo, ormai conformato al modus vivendi sinora esperito, di questo si farà portavoce ed attore silentemente rinunciando alla gioiosa possibilità di scoprire ciò che del ludico gli è stato negato.
Il gioco non sarà fattore di crescita e maturazione globale, ma mero scimmiottamento di stereotipi adulti, quali la competitività, l'utilizzazione professionale ecc..

Dalle pregiudiziali verso il recupero

Prima di affrontare la questione del recupero del ludico, è necessario soffermarci su alcune pregiudiziali.
Non v'è dubbio che, similmente ad altri processi bio-psico-sociali, anche per il gioco varrebbe il principio che si hanno tante più possibilità di beneficiare delle sue intrinseche potenzialità quanto più tempestivamente i nostri interventi saranno con esse sintonizzati.
Sottolineavamo lo smarrimento del senso del ludico nelle generazioni passate (vuoi "intenzionale", finalizzato ecc. vuoi "casuale") con conseguente impovermento delle opportunità di gioco, quindi anche di esercizio motorico, per cui si giunge alla soglia dell'età scolare con un'insufficiente sviluppo psicomotorio, oggi aggravato dall'immobilità da televisione.

Altra pregiudiziale, questa di ordine culturale, concerne la questione se "l'utilizzazione" del gioco non ne alteri la natura (libertà, spontaneità e, in una parola, la già accennata congenialità).
A disconferma di ciò, basterebbe uno sguardo a ciò che avviene in natura, ove l'utile e il dilettevole vanno quasi sempre...naturalmente insieme (si pensi alle "recondite armonie" ed alle relative funzioni dei colori e delle forme dei fiori).
Vi è pure, in simil modo, che l'adulto potrà utilizzare il linguaggio del gioco come veicolo privilegiato di comunicazione, spesso in codice e, a sua volta, cogliere i messaggi che il bambino a lui indirizza, grato e felice della sua presenza. Tali opportunità ci appaiono non solo preziose ai fini psicoterapeutici, ma altrettanto funzionali all'osservazione degli atteggiamenti di fondo emergenti.
Atteggiamenti che nel bambino possono andare da uno scarso interesse per i giochi a sua disposizione ad una più o meno ossessiva ripetitività di uno stesso gioco, da un modo di giocare tranquillo ad uno agitato.
Ciò, oltre che sostituire gli strumenti del linguaggio convenzionale adulto per elicitare l'attenzione parentale nei confronti di un proprio disagio, può fungere da modalità desuntiva di sottostanti problemmatiche comuni al gruppo di appartenenza.
Evidente, dunque, la pregnanza dei messaggi trasmissibili mediante il gioco che di sé colora e sfaccetta l'interazione primaria.

Tali premesse assumono specifico significato in quel delicato accadimento che è l'inizio della scuola dell'obbligo e che, indiscriminatamente e anacronisticamente rispetto alle attuali conoscenze, è oggi definito in base a meri criteri anagrafici, senza tenere conto dei reali prerequisiti. .
Inoltre, in un clima ansiogeno, legato all'efficientismo ipercompetitivo in cui molti bambini vengono allevati, specialmente in vista della frequenza scolastica, considerata quale occasione di promozione sociale e per conseguire un titolo di studio favorente un lavoro più prestigioso e di maggior profitto, tale momento è vissuto come la contrazione dello spazio ludico in cui il gioco si oscura di furto, mentre ad esso si sostituisce il dovere, l'inizio di una vita in cui noiosi impegni paiono offrire vantaggi, quantomai aleatori e a lungo termine.
Questa situazione di base può sostenere vissuti di diffidenza nei confronti sia dei docenti che dei compagni: i primi percepiti, loro malgrado, come giudici e i secondi come pericolosi punti di riferimento che potranno incidere tanto più negativamente sulla sua personalità, nonché su un suo soddisfacente inserimento e profitto scolastici, quanto più egli si trova a soffrire di misconosciuti deficit, problemi rientranti nel termine prerequisiti.
Infatti, egli può giungere in un'aula scolastica con deficit sensoriali, psicomotori, problemi relazionali che, quando non si manifestano in quelle forme note come fobia della scuola, possono dar luogo a tutta una serie di difficoltà che portano a far ritenere la scuola piuttosto come fattore fra i più patogeni anziché come luogo privilegiato di armonica crescita, di arricchimento bio-psico-culturale.
In vero, mentre le leggi prevedono che la verifica dei prerequisiti venga effettuata durante la frequenza della scuola materna e che una diagnosi funzionale venga comunque effettuata all'inizio della frequenza della scuola elementare, le realtà in molte aree osservabili, presentano variegate connotazioni spesso negative.
D'altro canto, una verifica tecnica non sarebbe priva di effetti secondari indesiderati: si pensi alle ripercussioni, dirette e indirette (quelle tornanti sul bambino a boomerang dalle frustrazioni dei familiari) che ricadrebbero sul piccolo candidato qualora un'equipe medico-psico-pedagogica esprimesse un verdetto di inidoneità (profezie autoavverantesi).
Il ricorso a momenti e spazi ludici, per una tale verifica potrebbe essere l'uovo di Colombo, specialmente se si pensa che attività di gioco opportunamente condotte potrebbero servire oltre che per una tempestiva verifica dei pre-requisiti, nel contempo, per aiutare il bambino a superare, senza stigmatizzarle, alcune difficoltà, da quelle legate a ritardi di sviluppo psicomotorio ad altre di ordine psicoe-motivo e relazionale, fermo restante la necessità di eventuali interventi mirati (prevenzione secondaria e terziaria).
Anche l'annoso problema dell'inserimento di portatori di handicap (ivi compresi quelli rappresentati da gravi svantaggi socioculturali) potrebbe trovare, nel ludico inteso come opportunità preventiva, una soluzione adeguata.

Il ludico allora, il senso del ludico, la cultura del ludico, che tutto in sé comprende ed amalgama, riassume ed elabora.
Il ludico come estremo recupero del magico momento in cui è l'incontro tra sé e l'altro, il dentro e il fuori, il reale e l'imaginifico.
Una povera vita quando questo sentore si smarrisse e smettesse di alimentare il possibile desiderio di essere, di amare dunque.
Il recupero del maltolto promette la sintonia del vivere con il convivere sconfiggendo il mero sopravvivere.

Per quanto riguarda i riferimenti bibliografici, si ri-manda al Centro Documentaziome del C.I.G.I. (Comitato Ita-liano Per il Gioco Infantile)