L’APPORTO
“RIVOLUZIONARIO”
DELLA BIO-PSICO-SOCIO-DINAMICA
PER UN MODO PIU’ CONGRUO DI VALUTAZIONE DEI COMPORTAMENTI
IL PARAMETRO DELLA “CARTELLA CLINICA”
Anzitutto
occorre sfatare un luogo comune ancora molto radicato nella stragrande
maggioranza dei non iniziati, vale a dire che il considerare da un
punto di vista psico e socio dinamico un comportamento significhi
giustificarlo.
Pur ammettendo che una certa responsabilità sia dovuta ad alcuni
iniziati, in linea di massima molti pregiudizi nei confronti di quanto
ha a che fare con le dinamiche psichiche e sociali sono irrazionalmente
connessi con resistenze, vale dire con difese di un proprio equilibrio
psicoemotivo umanamente comprensibili, faticosamente mantenuto e,
come tale, anche da rispettare, specialmente quando manchi la richiesta
di un intervento tecnico.
Varrà la pena di spostare l’obiettivo di questo genere
di discorsi sul versante della prevenzione primaria.
Se, in effetti, si concorda con quanto detto a proprosito delle condizioni
e dei fattori di crescita necessari per favorire un’armonica
realizzazione del progetto individuale, di conseguenza, dovremmo per
lo meno prendere in considerazione la possibilità che qualcosa
non abbia funzionato a dovere nei primi tempi di vita di chi si “comporta
male”, così come, nel vedere un malato di rachitismo,
si deve desumere che gli sia mancata la vitamina D o le condizioni
(per esempio, di soleggiamento) per utilizzarla.
Il caso del famoso personaggio manzoniano Gertrude, meglio nota come
la monaca di Monza, può chiarire meglio il concetto di che
cosa si intenda per “cartella clinica”.
Infatti, quando il Manzoni ci illustra la storia dell’infanzia
e dell’adolescenza di questa sventurata, il nostro giudizio
si sposta da lei ai genitori.
Questo spostamento, però, non modifica il nostro atteggiamento
di fondo: basterebbe chiedersi che genere di storia avranno avuto
i suoi antenati.
E allora si giustifica tutto e tutti?
A questo punto, si deve rilevare che nel profondo della psiche di
ciascuno di noi vige la cosiddetta legge del taglione, per cui ogni
torto subìto (specialmente nei primi tempi di vita e contro
il proprio progetto) genererà nella stessa psiche una tendenza
coatta alla ritorsione, sia pure transferalmente, contro qualcuno
e siccome, rebus sic stantibus, è estremamente improbabile
che qualcuno di noi sia stato risparmiato da torti, ne consegue che
sono innumerevoli le persone alla ricerca di un capro espiatorio.
Per inciso si ricorda che, al di là di fortunate circostanze
o di buone possibilità di elaborare i relativi problemi in
opportuna sede (per esempio, psicoterapeutica), le alternative più
comuni sono quelle del contro se stesso, cioè delle somatizzazioni
oppure quella della gestione per delega.
In base a queste considerazioni, si può comprendere meglio
perché chi tende a togliere la materia del contendere, gli
uomini di pace o, comunque quanti cercano di spegnere focalai di tensione
fra i popoli facciano una brutta fine: è da supporre che chi,
per vari motivi ( ivi compresi quelli connessi con la propria situazione
di inquinamenti miasmatici), si trova senza il bersaglio scelto per
smaltire le proprie tensioni, riceva un tale contraccolpo, cioè
un aumento intollerabile delle stesse tensioni interne, da reagire
con accresciuta violenza.
In proposito, si ribadisce il concetto che queste considerazioni non
tendono a giustificare i comportamenti violenti o comunque contro
qualcuno, ma a sottolineare l’importanza delle condizioni e
dei fattori di crescita eco-psico-sociali, al fine di avere una società
composta da cittadini allevati in armonia con il proprio progetto.
Del resto a che sono servite le reazioni moralistiche, giustizialiste
e tutti gli altri espedienti sinora adottati per cercare di isolare
o di neutralizzare o, ancora, di eliminare i malfattori?
Secoli di taglio delle mani non hanno risolto il problema dei furti
come le pene più severe non sono riuscite a diminuire gli omicidi.
In proposito, basterebbe pensare che tanti omicidi finiscono con il
suicidarsi subito dopo.
Uflteriori vantaggi in senso preventivo si potrebbero ottenere da
una diffusione di un atteggiamento centrato sulla genesi dei comportamenti,
invece che sul giudizio moralistico.
Si pensi, per esempio, a come verrebbe considerato chi tende ad accumulare
beni e denaro al di là delle possibilità di godersi
l’uno e gli altri, senza preoccupazioni, in perfetta serenità
d’animo e a come si troverebbe lontano dal sentirsi a proprio
agio se questo stesso fosse consapevole che una tale auri fames è
indice di carenze affettive, di problemi risalenti alla propria infanzia
e che, per giunta, gli altri lo riconoscessero come frustrato, “affetto
da carenze e da traumi risalenti alla sua infanzia”. Per lo
meno, verrebbe a ridimensionarsi la stima condita d’invidia
nei confronti dei nababbi e l’autostima di chi intendesse avere
come scopo di vita l’arricchirsi. Forse un tale modello di vita
verrebbe a perdere qualcosa del suo mitico fascino.
Si ricorda che il denaro, avendo in comune con i genitori, il fatto
di essere recepito come fonte di cibo, di potere e di speranza di
avere tutto il desiderabile, facilmente viene a essere elaborato dalla
psiche come simbolo parentale, per cui finisce per rappresentare un
miraggio per quanti ( e non sono pochi) non abbiano ottenuto durante
la propria infanzia la soddisfazione dei propri bisogni e quant’altro
si possa desiderare o, anzi, avevano subìto piuttosto cocenti
frustrazioni.
La consapevolezza della natura problematica infantile di una propria
tendenza, per esempio, a una insaziabile sete di beni, di vantaggi
e di potere, non più appoggiata da una mentalità comune
che la consideri come obiettivo ideale, potrebbe più facilmente
indurre a liberarsi da questa come da qualsiasi altra “magnifica
ossessione”, magari ricorrendo a un trattamento psicoterapeutico.
Quindi, una tale ottica (bio-psico-socio-dinamica) risulterebbe tutt’altro
che deresponsabilizzante e assolutoria.
In
conclusione dei paragrafi tesi a ribaltare la tendenza tradizionale
a giudicare moralisticamente i comportamenti, sembra opportuna un’altra
considerazione sul fatto che i sensi di colpa possano avere come esito
positivo la spinta a riparare, a divenire altruisti, magari beneficiando
altre persone, cioè a dar luogo a un modello con l’altro
e per l’altro.
Nessuno oserebbe biasimare una tale evoluzione, anche se l’operare
il bene con motivazioni di questo genere non è privo di una
cerca componente di ansia e di coattività che, probabilmente,
non ci sarebbe se il raggiungimento del modello con e per l’altro
avvenisse in base a un’armonica evoluzione.