IDENTIKIT
PSICOLOGICO DEL TERRORISTA
“COSA
FATTA CAPO HA”
Non
ho elementi di conoscenza per compilare una probabile cartella clinica
di soggetti che hanno compiuto atti terroristici. Tuttavia, dalle
conoscenze di psicologia dell’età evolutiva oggi disponibili
e dalle modalità di esecuzione dei loro atti non è eccessivamente
difficile farsi un’idea attendibile di quel che probabilmente
“bolle in pentola”, cioè nella loro testa.
In effetti, anche per il fatto che, alla fin fine, difficilmente i
loro atti raggiungono lo scopo proclamato, v’è da pensare
che le motivazioni psicologiche profonde prevalgano sulle coperture
ideologiche enunciate con tanta ostentata determinazione.
Una delle ipotesi che appare più probabile è che essi
rientrino in una delle dieci personalità psicopatiche descritte
dallo psichiatra tedesco Kurt Schneider, vale a dire: personalità
bisognose di farsi valere.
Devo precisare che questo autore, per personalità psicopatiche,
intende riferirsi a quelle persone che sono in condizioni di soffrire
essi stessi e di far soffrire la società.
Ancora più interessante è la ricerca delle condizioni
e dei fattori che, sin dai primi tempi di vita, hanno potuto disturbare
un’armonica evoluzione della propria personalità.
Intanto v’è da rilevare che il bambino - entro determinati
limiti fisiologicamente - si trova nelle condizioni di aver bisogno
di farsi valere. “fisiologicamente”, fin tanto che si
tratti di essere riconosciuto come persona degna di rispetto, di avere
un’identità, una propria collocazione nel gruppo di appartenenza,
prima e, successivamente, in senso al gruppo dei propri compagni di
gioco, nella scuola, nel posto di lavoro, nella società.
Purtroppo, capita abbastanza spesso e, fortunatamente, non sempre
in modo grave, che i su accennati diritti fondamentali della persona
vengano frustrati oppure che il bambino - sia pure con le migliori
intenzioni di questo mondo e nelle migliori famiglie - trovi il modo
di compensare i propri sentimenti di inferiorità mediante identità
negative.
In termini più espliciti, un bambino viene, per esempio, allevato
sotto un regime di eccessiva severità (che non necessariamente
è tale ma lo è forse per la sua sensibilità)
e che egli recepisca i metodi educativi dei grandi come sopraffattori,
intimidatori, ricattatori (il permissivismo alla prima maniera del
dott. Spock è altrettanto pregiudizievole: gli estremi si toccano
anche in questo caso).
In tal modo si esaspera in lui l’esigenza di ribaltare la situazione
di pre-potere imposta dall’adulto e si prepara un terreno psico-emotivo
suscettibile a identità negative: epiteti - come quello di
cattivo, piccola peste, piccola canaglia, piccolo delinquente ecc.
- gli giungono a fagiolo.
E’ il bambino che si diverte un mondo quando ha la possibilità
di giocare con un grande che finge di avere paura di lui, che a carnevale
sceglie le maschere più orripilanti.
Certo,
quasi tutti i bambini possono transitoriamente mostrare questo tipo
di reazioni e, in effetti, queste non si stabilizzeranno nel suo carattere,
a meno che egli non sia rimasto profondamente ferito nella sua dignità,
nei suoi diritti fondamentali.
Questo e altro, per esempio, è quanto è accaduto per
Adolf Hitler, sin dai primi tempi della sua vita.
COME
LA STORIA SPOSATA ALLA PSICODINAMICA CI POTREBBE INSEGNARE QUALCOSA
DI NUOVO
AI FINI DI UN AUSPICABILE CAMBIAMENTO
Quanto
è capitato ad Adolf Hitler, sin dai primi tempi della sua vita
ci può dare un’idea su cosa dovremmo evitare, per prevenire
gravi e nefaste alterazioni della personalità dei futuri cittadini:
semplificando al massimo, si potrebbe ritenere che, per allevare bene
un figlio, si dovrebbe fare tutto il contrario di quello che si è
fatto per il piccolo Adolph Hitler
(N.B: secondo aneddoti, giacché il Furer fece di tutto per
far sparire ogni dato riguardante la sua “anamnesi remota”).
La madre, da una parte, lo iperproteggeva al punto da non consentire
al suo Io di crescere e, dall’altra, lo poneva in situazioni
eccessivamente frustranti. Tra l’altro, lo inserì in
una scuola di élite, così che, egli timido (imbambolato),
piccolo e nero come Calimero, si trovò a competere con ragazzi
alti, biondi, teutonici.
Si può avere un’idea del genere di considerazione in
cui lo tenevano questi suoi compagni di scuola e di gioco da un episodio
riportato in un film sulla sua vita infantile e giovanile: il giorno
in cui si cimentò a giocare alla guerra con loro, egli cadde
nel fango di un parco e i suoi compagni passarono oltre calpestandogli
l’arma giocattolo regalata gli dlla madre.
Il maestro, handicappato, scaricava la sua aggressività contro
di lui.
Inoltre, gli toccò di essere allevato in una Germania dove
imperversavano certe metodiche escogitate da un ortopedico improvvisatosi
pedagogista.
Questi, nell’intento di educare una società teutonica,
aveva inventato e diffuso con incredibile successo, una serie di aggeggi
di contenzione, cioè camice di forza, fatte di cuoio e metallo,
da indossare sin dalle più tenere età, cambiandoli durante
le 24 ore a seconda le varie attività: da seduti a tavola,
quello che abituava il giovine a tenere la testa dritta (grazie a
un poggia mento), petto in fuori e le spalle piuttosto tese all’indietro.
Queste camice di forza dovevano essere indossate anche durante il
riposo notturno, per mantenere la cui posizione corretta, erano previsti
degli allenamenti che consistevano nel reggere la posizione rigidamente
tesa tra due sedie: su una si poggiava la testa e sull’altra
i piedi.
Certamente, le Grandi Diplomazie, al momento in cui redigevano il
Trattato di Versailles, non sapevano che, nel frattempo, si stava
allevando un bambino che un giorno avrebbe scatenato una delle più
folli e cruente tragedie del mondo. lascia perplessi il dato di fatto
che esse continuino a commettere gli stessi errori. In proposito,
un adagio latino avverte che errare è umano, ma perseverare
è diabolico.
Neanche
l’ortopedico, improvvisatosi pedagogista e fautore di una Germania
(anzi di un mondo, visto che il suo libro è stato tradotto
in diverse diecine di lingue in altrettante nazioni) teutonica (v.
articolo pubblicato sul Difensore del... n. ...) avrebbe immaginato
che uno dei suoi figli sarebbe divenuto schizofrenico e un altro si
sarebbe suicidato.
Altrettanto in buona fede, nei confronti dei nostri cuccioli, si dà
luogo in famiglia, a scuola e da parte di altri educatori, a problemi
più o meno gravi per sé e per gli altri.
Il
colpo di grazia per la mente già traumatizzata dell’adolescente
Adolf venne con la morte del padre.
Si racconta che l’adolescente Adolf, subito dopo la morte del
padre, scappò da casa e sviluppò una specie di delirio
di grandezza: si credeva un grande artista e traeva il necessario
per sopravvivere, vendendo porta a porta propri disegni (mi pare cartoline
e piccoli quadri dipinti da lui). Dormiva spesso all’aperto,
sulle panchine.
Dal punto di vista psicodinamico si tratta di una reazione a vissuti
profondi di colpa per aver vinto la lotta edipica, vale dire di aver
eliminato il rivale (il padre), trovandosi di fronte al rischio di
un rapporto (con la madre) incestuoso.
Dai profondi meandri della psiche si avverte una pressante esigenza
di coprire le proprie reazioni di vendetta con alibi ideologici, con
alti, nobili valori: una seria operazione di pulizia razziale può
placare la psiche, dandole l’impressione di farle giustizia,
ottemperando ai dettami della Legge del Taglione.
In questi casi, la psiche ricorre con espedienti all’insegna
del principio degli estremi rimedi contro estremi mali e si trova,
come Don Chisciotte, a lottare contro mulini a vento, contro fantasmi
onnipotenti.
In proposito, si deve rilevare che l’elaborazione del lutto,
di solito, è tanto più travagliata quanto peggiori sono
stati i rapporti durante la vita, magari per un rapporto di dipendenza
eccessiva e che non riesca ad evolvere verso la maturità.
In effetti, nei livelli profondi della psiche, dove si covano forti
risentimenti, si vive con sensi di colpa la morte di una persona cara
e, nel contempo, rivale specialmente nei confronti della madre dalla
quale si dipende vitalmente (è come se si fosse realizzato
il desiderio onnipotente di vendetta), dalla quale nello stesso tempo
si dipende e contro la quale si nutrono altrettanto forti desideri
di rivalsa (si ricorda che negli stessi livelli della psiche vige
la cosiddetta Legge del Taglione). Avercela con un fantasma, che assume
connotazioni di onnipotenza, comporta ulteriori complicazioni. In
tale situazioni, i risentimenti si agitano sia nei confronti della
persona dalla quale si dipende di più, che in effetti o in
fantasia viene vissuta come traditrice (di solito, la madre) sia nei
confronti del rivale (padre, fratello ecc.). Distruggere chi rappresenta
l’unica possibilità di sopravvivenza fisica e psichica
è come distruggere se stessi. Avercela contro un rivale ritenuto
onnipotente e che in effetti è eccessivamente più forte,
comporta la paura della reazione, specialmente quando (per esempio,
perché morto) diviene un onnipotente e onnipresente fantasma.
Da qui la paura del fantasma dei propri cari defunti, più o
meno presente in tutti.
E’
una situazione senza uscita e l’equilibrio mentale viene messo
a dura prova.
Per inciso, faccio presente che le reazioni di rabbia conseguenti
a rapporti carichi di risentimenti, specialmente nei confronti della
persona dalla quale si dipende di più e che vengono generalmente
indicati come di amore/odio, in realtà sono indice del significato
affettivo che la persona “odiata” ha per il bambino (anche
per quel bambino che rimane dentro di noi per tutta la vita) che si
sente tradito o frustrato ingiustamente da chi gli fa “male
per educarlo”.
Il
delirio di grandezza si può impadronire della mente di soggetti
come questi.: Il nemico viene onnipotentemente simbolizzato e ampliato
(processo psichico che si chiama meccanismo di difesa intrapsichico
di generalizzazione): i vecchi compagni di scuola e di giochi divengono
i suoi collaboratori durante il periodo del suo maggior dominio. Essi
finiscono per tradirlo (guarda caso, i suoi modi di trattarli non
erano inconsciamente provocatori, per indurli a ripetere la situazione
già sofferta? In psicodinamica, questo processo psichico va
sotto i nome di compulsione a ripetere: la psiche tenta di liberarsi
da un “magone”, riproponendolo quando, finalmente, si
ritiene di avere il coltello dalla parte del manico, cioè di
aver raggiunto condizioni di vantaggio effettivo o ritenuto tale):
il padre ebreo inconsciamente diviene “la razza” di tutti
gli ebrei; la madre naturale viene altrettanto inconsapevolmente simbolizzata
nella Madre Patria. Questa viene fatta distruggere da altri, dai nemici,
mentre l’autore dell’immane tragedia, alla fine, si trova
destinato a subire il tutto come vittima sacrificale, per aver tentato
di sterminare i fantomatici nemici in nome di valori come quelli della
giustizia sociale e via di seguito.
Anche l’autopunizione tende a placare l’ira funesta del
codice morale (Super-Io) che impera da despota nella psiche.
Se
accanto alle meritevoli operazioni delle forze dell’ordine,
per tamponare quanto minaccia la convivenza civile, non si affiancano
nostri illuminati provvedimenti a livello dei vivai malsani (psico
e socio patogeni) per le giovani generazioni, noi continueremo a sorprenderci
che, dopo alcuni anni, si ripresenta il fenomeno, per esempio, del
terrorismo che credevamo sconfitto per sempre. E questo, ovviamente,
vale per qualsiasi altro fenomeno indesiderabile.
Credo che considerazioni come queste appena accennate dovrebbero far
pensare chi incentiva le nascite in senso numerico, senza preoccuparsi
in quali condizioni verranno allevati i nuovi arrivati nella nostra
società.
Roma,
24 maggio, 1999 ____________________Pier
Luigi Lando