OMICIDIO DI STATO

Essere a favore della pena di morte significa riconoscere il diritto di uccidere, di gestire un omicidio a funzionari di stato i quali, per il fatto di aver vinto un concorso, non sono perciò stesso diversi dagli altri esseri umani, non sono esenti dalle istanze potenzialmente omicide presenti nelle parti più ancestrali del nostro cervello, né da convinzioni errate o di parte (oggi, il loro ruolo potrebbe essere svolto da sedicenti seguaci della destra, domani, della sinistra), né da problemi psicoemotivi che potrebbero motivare atti omicidi, magari per interposta persona (funzionari di stato, boia ecc.), razionalizzandoli in vario modo.
L’irriducibilità (alla ragione) e la coattività delle argomentazioni di chi è favorevole alla pena di morte sono psicodinamicamente molto sospette in senso psicopatologico.


“Benché il parlar sia indarno, …” intendo richiamare l'attenzione sulle componenti irrazionali che possono giocare un ruolo preponderante nel determinismo della pena di morte.
Pur consapevole della contradditio in terminis - che consiste appunto nella pretesa di colloquiare con istanze irrazionali mediante il linguaggio della ragione - proseguo in questa poco promettente impresa, per evidenziare meglio l’incongruenza tra le argomentazioni dei forcaioli e la realtà.
Per esempio, uno degli argomenti più comunemente sostenuti a favore della pena di morte è quello della sua validità deterrente, nel senso che essa servirebbe a indurre i potenziali omicidi a desistere.
Se servisse l’evidenza per ridurre alla ragione questi nostri interlocutori, sarebbero sufficienti i risultati rilevabili nei paesi dove vige la pena di morte. In effetti, tali risultati smentiscono le attese e le pezze giustificative a favore della pena capitale, offrendo almeno un punto a favore di chi sostiene l’inutilità e la natura irrazionale delle istanze a uccidere una persona, sia di coloro i quali lo fanno in proprio sia di quelli che lo auspicano e lo eseguono per delega giudiziaria.
In altre parole, se le tesi dei sostenitori della pena capitale non avessero le loro radici più profonde in ambiti irrazionali della psiche, basterebbero argomentazioni razionali fondati su dati statistici per smuovere le loro convinzioni, facendo notare, ad esempio, che il secolare taglio della mano dei ladri, in auge nel Medio Oriente, non ha ottenuto la scomparsa dei furti.
Fra le controtesi più comuni vì è quella che altrimenti gli atti delinquenziali sarebbero molto più numerosi.
Ancora, a proposito della natura irrazionale delle pulsioni a uccidere un essere umano, osserverei che è tutt'altro che raro che chi compie un omicidio finisca con il suicidarsi. Il che è indice di un tipo di logica molto diversa da chi non si ritiene propenso a uccidere e pertanto confida sulla natura deterrente della pena capitale.
E quanti si suicidano per non uccidere, per non fare una strage?
Chi è portato a uccidere qualcuno, che in realtà appartiene alla specie umana, si giova dell’alibi giustificativo che chi compie delitti efferati non sia un proprio simile, in quanto indegno di essere annoverato tra gli umani.
Oltre alle attuali conoscenze sull'organizzazione del nostro cervello che ci informano che l'istanza a uccidere è presente e attiva nel livello di organizzazione più ancestrale del cervello di tutti noi (questo livello non è raggiungibile da alcuna argomentazione razionale), ulteriori lumi ci possono provenire dalle conoscenze di psicodinamica.
In breve, l'accanimento coatto a sostenere la pena di morte potrebbe avere radici in problemi risalenti alla propria infanzia, vale a dire da risentimenti di rivalità fraterna repressi e mai emersi a livello di consapevolezza. In altre parole le anzidette istanze (che abbiamo in comune con le più feroci belve) potrebbero essere sollecitate a emergere da motivazioni psicopatologiche che, in tutta una gamma di gradi, essendo presenti in tutti noi, sostengono l’esigenza di avere un bersaglio (rivale, nemico ecc.) contro cui sia lecito e persino doveroso smaltire le proprie tensioni.
Da qui anche le contrapposizioni manicheo-tribali di ogni tempo e luogo.
Il carattere di irriducibilità delle argomentazioni a favore delle pene severissime (che si manifesta con connotazioni compulsive), oltre alle esperienze traumatiche, come quella della rivalità genitoriale e fraterna represse perché insostenibili a livello di consapevolezza, sono ricollegabili, alla ben nota legge del taglione vigente nei meandri più reconditi della psiche. Esse accrescono l’esigenza di scarica che viene ad assumere una tale forza, tanto che può divenire loro bersaglio perfino chi si presenta come apostolo della non violenza, proprio perché da questi stessi livelli psichici ogni fautore di pace viene vissuto come responsabile della sottrazione di bersagli contro cui si riteneva lecito inveire, ottenendo il sollievo delle tensioni interne, la soddisfazione di un bisogno impellente di scarica, per non scoppiare.
La storia antica e recente può fornire documentazione a iosa a favore di questa affermazione.
Del resto, basterebbe pensare alle reazioni aggressive che sollecita anche chi sostiene argomenti contro la pena di morte, contro le pene severissime, come se si rendesse altrettanto responsabile della sottrazione del su accennato legittimo bersaglio.
A proposito, della serie di eliminazioni di tanti uomini di pace - che sembra abbia a che fare con l’appena accennata esigenza ancestrale e psicopatologica di coloro che si credono dalla parte dei buoni e dei giusti e inveiscono contro i malfattori - per l’ennesima volta mi viene in mente quanto affermava il mio maestro prof. Mario Gozzano e che, con una lieve modifica, parafraso così: le reazioni moralistiche sono sospette dal punto di vista psichiatrico e morale.

Ora, a parte ragioni valoriali, etiche e attinenti alla sensibilità umana e civile, l’omicidio di stato non si dimostra utile allo scopo di scoraggiare i delinquenti perché pedagogicamente controproducente.
Il messaggio che uno stato invia ai cittadini e, in particolare, alle nuove generazioni, è contraddittorio e diseducativo: mentre le leggi dello stesso stato condannano l'omicidio (a meno che esso non sia perpetrato a scopo di legittima difesa e in condizioni di inevitabilità, di assoluta mancanza di un'alternativa di difesa e in nessun caso sarebbe tollerabile che qualcuno possa macellare un proprio simile a freddo, immobilizzato, in condizioni di non poter nuocere), autorizzano propri funzionari a perpetrare l'omicidio, per giunta a freddo.
Da questo punto di vista, lo Stato dà il peggiore esempio anche perché offre lo spunto per sostenere che sussistano motivi validi perché si possa uccidere un proprio simile ( nel mondo delle bestie uccidere un proprio simile rappresenta un'eccezione) al di fuori delle condizioni di legittima difesa appena menzionate.
Da qui a ritenere lecito il farsi giustizia con le proprie mani il passo è breve!
E chi ci assicura che il rappresentante dello stato che irremovibilmente condanna a morte e non concede la grazia, oltre che per evidenti motivi politici, non sia sostenuto da motivazioni psicopatologiche del tipo rivalità fraterna repressa, sintonizzandosi con analoghe motivazioni dei cittadini suoi sostenitori elettorali?
Per dirimere dubbi di questo genere, dovremmo avere la sua cartella clinica.
Possono istanze irrazionali, ancestrali, illecite, inammissibili sul piano etico e umano - anche da parte di chi sostiene la pena di morte - divenire magicamente sacrosante soltanto perché eseguite per delega dallo Stato, da suoi funzionari che, tra l'altro, non sappiamo quanto siano sani di mente?
Non faremmo meglio (invece che aspettarli al varco per condannarli a morte o comunque per comminare contro di loro pene severissime) a interessarci in tempo dell'educazione di tanti bambini (che un giorno potrebbero rendersi meritevoli di estremi provvedimenti giudiziari), invece che continuare a lamentarci del calo delle nascite? A chi giova che tanti bambini oggi vengano allevati in condizioni psico e socio patologiche, cioè criminogene?
Se prevalesse la ragione, i nostri meno accaniti interlocutori potrebbero convenire che, per avviare a soluzione problemi come quelli degli omicidi, degli stupri, in breve, dei delitti più feroci e raccapriccianti, gioverebbe prendere adeguatamente cura dei numerosissimi vivai di delinquenza, in seno ai quali tanti bambini vengono violentati nella formazione della loro personalità, vivendo in ambienti che sono vere e proprie scuole di violenza e di ogni genere di atti delinquenziali.
Quanti bambini, con le migliori intenzioni di questo mondo e nelle migliori famiglie, vengono suggestionati ad assumere identità negative, affibbiando loro epiteti di piccolo delinquente, piccola canaglia e via di questo passo?
Potrei concludere con un proverbio: “Chi semina spine raccoglie tempesta”

Roma, 4 maggio 1999________________________
Pier Luigi Lando