CENERE
DI TEA RANNO (*)
Una volta che si sia iniziato a leggerlo, si viene
irresistibilmente presi sino alla fine e lo si vorrebbe “bere”
tutto d’un fiato. I colpi di scena, gli imprevisti sono a ogni
piè sospinto, tengono il lettore costantemente sulla corda,
desideroso di conoscere il modo in cui ogni singolo evento andrà
a finire.
Ciò che più colpisce è l’ambigua poliedricità
dell’animo umano che in ciascun personaggio - per circostanze
e interventi di altri soggetti - viene sistematicamente messo a nudo,
sicché appena ci si era fatta un’idea di qualcuno, e
lo si era collocato tra i buoni o i cattivi, ecco che d’un tratto
ci si rivela diverso. Chi si sarebbe aspettato, per esempio, che proprio
ad opera della stessa protagonista, la contessa Stèfana (che
si improvvisa Pubblico Ministero mentre sta per essere processata
come strega) ciascuno dei componenti il “tribunale” venisse
svelato nelle sue magagne e nei suoi vizi moralmente inconfessabili?
E che ognuno di loro - che condanna la contessa come eretica sulla
base di una frase scritta a margine d’un libro a lei sequestrato
- in vari momenti e modi, risultasse più gravemente affetto
della stessa “malattia”?
Impressiona particolarmente il fatto che la fanciulla Delinda, che
avevamo ormai considerata tra le più angeliche e miti di cuore,
è quella che, ubbidendo a un implacabile bisogno di vendetta,
mette in moto l’insieme di dicerie che porteranno la signora
al suo destino; ed è quella, altresì, che più
degli altri si scalmana e più aggressivamente inveisce contro
di essa spronando il boia a seviziarla e tormentarla senza pietà.
O lo stesso frate Lorenzo, anch’egli profondamente e sinceramente
“buono” ma capace di fantasie violentissime nel momento
in cui si trova a dover fare i conti con uno dei fantasmi che lo ossessiona.
A un certo punto della lettura, ho avuto l’impressione che l’autrice
avesse voluto dimostrare l’affermazione del mio maestro di malattie
nervose e mentali, Mario Gozzano: “I moralisti sono sempre sospetti,
dal punto di vista morale e psichiatrico”. La coincidenza è
dovuta al fatto che la nostra psiche, non tollerando i sensi di colpa
che, per motivi reali o immaginari, spesso la tormentano, ricorre
all’espediente della proiezione della colpa e trasferisce sull’altro
proprio quei sentimenti che aborrisce in sé: da qui la dinamica
del capro espiatorio, del paziente designato, del bersaglio transferale.
Questa storia magistralmente elaborata dalla Ranno, solleva un dubbio
molto inquietante: abbiamo consistenti motivi per ritenere che i fantasmi,
“le cattiverie” che agitarono i nostri simili al tempo
della caccia alle streghe, abbiano definitivamente abbandonato i meandri
della psiche delle successive generazioni e che noi oggi ne siamo
immuni? E dove sarebbe andato a finire tutto quell’insieme di
contenuti psicoemotivi che sembrava avesse bisogno di crearsi alibi
magici, sino a credere nelle cose più assurde, a mettere insieme
fatti e fantasie in modo da dare loro significati funzionali allo
scopo di vedere in chiunque lo strumento di un’opera demoniaca?
Possiamo provare a sciogliere il dubbio sostenendo che oggi, al lume
di conoscenze psicodinamiche - in particolare di quelle provenienti
dalla psicologia dell’età evolutiva - è possibile
riconoscere l’origine di molte tensioni relazionali nei risentimenti
vissuti, repressi o rimossi durante i primi anni di vita: si pensi
a quelli spesso provocati dalle rivalità sofferte in famiglia,
in particolare di quella fraterna, quando la sottrazione di cure parentali
per la nascita di un fratellino viene vissuta non solo come abbandono,
ma anche come tradimento (per inciso: questa rivalità osservabile
anche in pulcini e cuccioli di altre specie e che ci appare troppo
crudele, è riconducibile alla lotta per la sopravvivenza e
in funzione della selezione naturale).
Per quel che riguarda invece lo smaltimento delle nostre tensioni
interne, possiamo affermare che le destinazioni alternative delle
cariche aggressive (che più o meno tutti avremmo), vengono,
nella stragrande maggioranza dei casi, dai “buoni” somatizzate
o gestite per delega (insomma, è difficile oggi che una Delinda
si vendichi della sua padrona mandandola a morire, piuttosto si servirà
di altri espedienti che le permetteranno di ottenere lo stesso risultato
senza spargimento di sangue ). Oppure, essendo i “buoni”
troppo condizionati da giustificazioni religiose o morali, finiranno
per rivoltare l’aggressività violenta contro se stessi.
Come avviene, per esempio, nei depressi, nei quali sono latenti (e
a stento contenute), impensabili cariche aggressive in buona parte
connesse con risentimenti rancorosi e sensi di colpa. In questi soggetti,
la migliore forma di aiuto consiste nell’indurli a scaricare
catarticamente la rabbia repressa in modo innocuo per sé e
per gli altri, risparmiando a tanti di essi il ricorso a farmaci che
comportano rischi di effetti collaterali e non sempre risolutivi.
Problema che non si pone in Cenere, dove ogni personaggio riuscirà
a fare i conti con la propria coscienza (e con quella degli altri)
servendosi di azioni esplicite, di strumenti forse poco ortodossi
ma tali da permettere a ciascuno di specchiarsi nell’altro e
di scoprirsi molto diverso da come si è sempre pensato.
Roma, 10 aprile 2006 Pier Luigi Lando
(*) Edizioni E/O, Roma, 2006